Dai tempi del Friuli in poi, se chiedo a qualcuno che è stato testimone di un terremoto qual è la cosa che lo ha spaventato di più, due volte su tre mi dice: il rumore. La cosa che invece ha letteralmente terrorizzato me è stato il silenzio. L’ho conosciuto a L’Aquila già il primo giorno in cui abbiamo iniziato i sopralluoghi per girare “Non chiamarmi Terremoto“.
Camminavamo per il centro storico abbandonato, cristallizzato in un’istante che sembrava eterno, come nel mondo della Bella Addormentata che guardavo da piccola nei volumi delle Fiabe Sonore. Dove passa il terremoto c’è un silenzio che fa male alle orecchie, perché non è il silenzio bello, che ti sei meritato dopo una giornata impegnativa, quando affondi fino alle orecchie nella vasca da bagno come un ippopotamo.
E’ piuttosto un silenzio da vecchi set di film western abbandonati. Pieni di fantasmi, di frasi lasciate a metà, di gesti che nessuno porterà a termine. Arrivando a Crevalcore, poco più di un mese dopo la scossa più forte, ho provato la stessa paurosa emozione. Giravo per un corso solitario, sospeso nel nulla, sorretto da stampelle di legno e cinghie, afflitto dalla stessa rumorosissima assenza di suoni, voci, parole, vita quotidiana. Ho pensato che per un regista, provare le stesse paure dei personaggi che ha inventato, è un incubo vero! Per questo il sollievo è grande quando le strade vuote, i negozi, i portoni si riempiono di colori, disegni, plastici.
Oggetti che riportano alla vita, che attirano persone ancora troppo spaventate per riappropriarsi delle strade in passato a lungo calpestate… I colori chiassosi di un cartoncino, le molle sbilenche sotto al modellino di una casa, le invenzioni antisismiche dei più piccoli… La funzione terapeutica del lavoro di rielaborazione di bambini e ragazzi si allarga a macchia d’olio su tutta la comunità. Rimette in forze, dà un po’ di coraggio. É vero, funziona proprio così. L’ho già visto accadere. Accade in questi giorni a San Felice, Sant’Agostino, Crevalcore…
Beba Gabanelli